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di Gianfranco Ravasi

Axel Kahn racconta un episodio autobiografico suggestivo:  "Alla sua morte mio padre mi lasciò una lettera con quest'ultimo appello:  Sii ragionevole e umano". È una sorta di motto che è divenuto anche il titolo di un suo libro, Raisonnable et humain (Parigi, Broché, 2004), e una divisa della sua stessa ricerca che ha costantemente intrecciato alla conoscenza razionale e all'analisi scientifica della genetica e della neurobiologia l'attenzione alla metafisica e alla simbolica spirituale. Si delinea, così, nell'opera dell'attuale presidente dell'università Paris-Descartes, un approccio multidisciplinare alla realtà, nella linea di una grande tradizione culturale che non è solo degli umanisti, ma anche di celebri scienziati, come per esempio Max Planck che nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico affermava:  "Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell'altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente".
È, allora, necessario che lo scienziato lasci cadere quell'orgogliosa autosufficienza che lo spinge a relegare la filosofia e la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale e quell'hybris che lo illude di dichiarare la capacità onnicomprensiva della scienza nel conoscere, circoscrivendo ed esaurendo la totalità dell'essere e dell'esistere, del senso e dei valori. Ma si deve vincere anche la tentazione del teologo desideroso di perimetrare i campi della ricerca scientifica e di finalizzarne o piegarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi. Come scriveva Schelling, occorre che scienziato e teologo "custodiscano castamente la loro frontiera", rimanendo aderenti ai loro specifici canoni di ricerca, pronti però anche a rispettare e a tenere in considerazione i metodi e i risultati degli altri approcci alla realtà in esame.
È questa la tesi di fondo che regge l'articolo che Kahn ha preparato per il nostro giornale, in premessa al dialogo che egli con me intesserà sul tema nella sede romana dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. "La credenza - egli scrive - non deve interferire nella ricerca razionale della soluzione dei problemi studiati e, in modo simmetrico, è legittimo che i credenti rifiutino ogni pretesa da parte degli scienziati di squalificare la loro fede quando il suo oggetto non è una meta logica degli approcci scientifici". Egli, dunque, propone "una coesistenza pacifica" tra scienza e fede, lasciando alle spalle quello scontro che ha ai suoi occhi un vertice (o una sorgente) nel positivismo di Comte, negatore della "legittimità di ogni interrogazione al di là della fisica".
Un impulso ulteriore a questa discrasia radicale è riconoscibile nel neopositivismo del Novecento. Il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (1921) dichiarava come prive di senso le proposizioni della metafisica, dell'etica e dell'estetica, perché esse non sono immagine di nessun fatto del mondo. I neopositivisti del cosiddetto "Circolo di Vienna" andarono oltre e interpretarono in senso svalutativo radicale l'affermazione di Wittgenstein riguardo ai discorsi non scientifici. In realtà, per il filosofo viennese - che non era certo un agnostico - si tratta solo di un'"ineffabilità" insita in quelle proposizioni, per cui "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Anche se sopravvivono ancora ben vigorosi epigoni delle tesi del "Circolo", come Dawkins e altri difensori di uno scientismo a oltranza, ha ragione Kahn nel considerare ormai marginale e semplificatoria tale impostazione.
Come si diceva, la sua è la proposta di un reciproco e coerente rispetto tra i due campi:  la scienza si dedica ai fatti, ai dati, al "come"; la metafisica e la religione si consacrano ai valori, ai significati ultimi, al "perché", secondo specifici protocolli di ricerca. È quella che lo scienziato statunitense Stephen J. Gould, morto nel 2002, ha sistematizzato nella formula dei Non-Overlapping-Magisteria, ossia della non-sovrapponibilità dei percorsi della conoscenza filosofico-teologica e della conoscenza empirico-scientifica. Essi incarnano due livelli metodologici, epistemologici, linguistici che, appartenendo a piani differenti, non possono intersecarsi, sono tra loro incommensurabili, risultano reciprocamente intraducibili e si rivelano in tal modo non conflittuali.
Riconosciuta la positività di tale impostazione, che rigetta facili concordismi sincretistici e assegna pari dignità ai diversi tracciati di analisi della realtà, bisogna però opporre una riserva che è ben evidente già a partire dalla stessa esperienza storica. Entrambe, scienza e teologia (o filosofia), hanno in comune l'oggetto della loro investigazione (l'uomo, l'essere, il cosmo) e - come ha osservato acutamente Michal Heller nel suo bel saggio Nuova fisica e nuova teologia, appena tradotto in italiano (Milano, San Paolo, 2009, pagine 200, euro 12) - "esistono alcuni tipi di asserzioni che si lasciano trasferire dal campo delle scienze sperimentali a quello filosofico e viceversa senza confondere i livelli", anzi, con esiti fecondi; si pensi al contributo che la filosofia ha offerto alla scienza riguardo alle categorie tempo e spazio.
Inoltre, continua lo studioso polacco, "la distinzione dei livelli non dovrebbe legittimare l'esclusione aprioristica della possibilità di qualsiasi sintesi". È così che ha preso vigore, accanto alla sempre valida (a livello di metodo) "teoria dei due livelli", una sussidiaria "teoria del dialogo" propugnata da Józef Tischner che fa leva sul fatto che ogni uomo è dotato di una coscienza e, quindi, ogni ricerca sulla vita umana e sul rapporto con l'universo esige una pluralità armonica di itinerari e di esiti.
Non è soddisfacente, allora, per una più compiuta risposta dissociare radicalmente i contributi scientifici da quelli filosofici e viceversa, pena una perdita della vera "concretezza" della realtà e dell'autenticità della stessa conoscenza umana che non è monodica, cioè solo razionale e formale, ma anche simbolico-affettiva (le pascaliane "ragioni del cuore").
Questa "teoria del dialogo" - che, per altro, faceva parte dell'eredità dell'umanesimo classico - è fatta balenare anche nella lettera che Giovanni Paolo II aveva indirizzato nel 1988 al direttore della Specola Vaticana:  "Il dialogo deve continuare e progredire in profondità e in ampiezza. In questo processo dobbiamo superare ogni tendenza regressiva che porti verso forme di riduzionismo unilaterale, di paura e di autoisolamento. Ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nutrire e provocare l'altra ad essere più pienamente ciò che deve essere e contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e di dove stiamo andando".
Distinzione ma non separatezza, dunque, tra scienza e fede. Il "fenomeno" a cui si dedica la scienza, ossia la "scena" come si è soliti dire, non è indipendente dal "fondamento" e, quindi, esperienza e "trascendenza" sono distinte nei livelli ma non isolate e incomunicabili.
A questo punto, se vogliamo attestarci solo sul versante che ci è proprio, quello teologico, possiamo condividere quanto scriveva nel 1982 sulla rivista "Scripta Theologica" José Luis Illanes:  "La teologia può attuare il suo contributo solo se si mantiene in contatto con le altre scienze. Essa ha bisogno di essere ascoltata ma ha altrettanto bisogno di ascoltare gli altri saperi. Il teologo, come lo scienziato, deve essere umile, e in misura ancor maggiore:  non solo perché ciò che sa lo riceve dalla parola di Dio, affidata alla Chiesa, di fronte a cui deve mantenersi in atteggiamento di devoto ascolto, ma anche perché riconosce che la scienza teologica non lo autorizza a prescindere da altri saperi". E qui idealmente ritorniamo al motto del padre di Axel Kahn, "ragionevole e umano". Due profili dello stesso volto:  cancellato uno, il viso si sfigura. Per dirla con una battuta folgorante dei Pensieri di Pascal:  "Due eccessi:  escludere la ragione, non ammettere che la ragione".
 

(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2009)