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Fonti esterne
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et persequendum
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di Fabrizio Bisconti

Tra il II e il III secolo, la personalità del vescovo comincia a emergere anche a Roma, provocando, a livello monumentale, un intimo intreccio tra i temi dell'autorappresentazione e, dunque, della creazione di un vero e proprio immaginario episcopale, e quello, pure fondamentale della committenza, che, com'è intuitivo, si allungherà sino al medioevo. Alle origini, le due questioni furono poco giudicabili dal punto di vista iconografico e persino il gesto forte, come quello che condusse, ancora nel III secolo, alla creazione della Cripta dei Papi a San Callisto, nel cuore del cimitero ufficiale della chiesa di Roma, parla una lingua piuttosto monumentale che decorativa se, come si è appreso dagli esiti delle ricerche più recenti, il primo sacrario pontificio, concepito tanto precocemente, comporta l'impianto di un semplice e sobrio cubicolo doppio, appena decorato da linee rosso-verdi e, presumibilmente, da elementi non proprio diversi da quelli che decorano i cubicoli circostanti del cimitero.
Il gesto, comunque, traduce in maniera monumentale quel delicato passaggio dalla chiesa di tipo collegiale e presbiteriale di ascendenza giudaica a quella episcopale che, a Roma, sembra strutturarsi - secondo quanto Manlio Simonetti ha desunto dalle fonti più antiche:  dal Pastore di Erma alla lettera di Clemente - proprio nel corso del III secolo. Se la chiesa di Roma, insieme a quella di Alessandria, approda abbastanza tardi al sistema episcopale monarchico, forse per il carattere multietnico della comunità internazionale e poco coesa nelle tradizioni, per lo più africane e orientali, e sconnessa dalle frange rigoriste di Ippolito e di Sabellio, che erano entrati nel merito della visione cristologica di Zefirino e Callisto; se, dunque, la creazione della prima Cripta dei Papi tiene conto di una sequenza episcopale, occorrerà riflettere sulla scelta certamente cristiana, direi neutrale dei programmi decorativi selezionati proprio per questo monumento eccellente, ma anche per i cosiddetti cubicoli dei sacramenti, per le cripte di Lucina nonché per il misconosciuto cubicolo di Orfeo, sempre nel cuore del comprensorio callistiano.
Qui il passato e il presente si incontrano, recuperando, o meglio, non abbandonando il repertorio ordinario dei pictores imaginarii, che cautamente inseriscono scene bibliche e personificazioni augurali in contesti di collaudata tradizione e di estrazione profana. Questa prassi, tanto cara alla cultura romana di carattere aulico, direi aristocratico, ben si addice alla classe selezionata della più alta gerarchia della Chiesa, proiettandosi nel tempo, sino alla tetrarchia, sino alle soglie dell'età costantiniana, laddove si colloca l'impianto, sicuramente episcopale, del complesso teodoriano di Aquileia.
Ebbene, la singolare basilica doppia, o tripla per essere più precisi, è "siglata" da quel Teodoro, che, con il diacono Agatone, prese parte allo storico concilio arelatense del 314. Il vescovo di Aquileia, pur vigilando sul grande cantiere basilicale, può essere stato affiancato da un volitivo entourage ecclesiastico e anche civile. Lo suggerisce la stretta parentela iconografica e stilistica tra i mosaici pavimentali della basilica e quelli dei triclini delle domus più o meno limitrofe e coeve, un tempo definiti "oratori cristiani". Anche ad Aquileia, i temi cristiani (Giona e buon pastore) si innestano come cunei in un contesto ancora neutrale. Questa ampia domus episcopale, sontuosamente decorata e strutturata, come quella sicuramente costantiniana di Treviri, accoglie un repertorio iconografico selezionato direttamente dal presule della città altoadriatica e dal suo entourage.
Complessivamente, comunque, i vescovi, che vivono all'ombra dei costantinidi e anche quelli che si trovano a confrontarsi con gli "ultimi pagani", propongono, secondo una strategica e sotterranea polemica anticesarea, delle risposte monumentali e decorative analoghe a quelle manifestate dalla corte imperiale e dai potentiores dell'aristocrazia romana. Così, anche nell'ultimo vivace scorcio del IV secolo, i vescovi parlano la stessa lingua degli auctores pagani, usano gli stessi stratagemmi retorici, aderiscono ai medesimi programmi monumentali, elaborano piani decorativi degni della più enfatica iconografia aulica.
E anche l'ambizioso piano "agiografico" di Papa Damaso (366-384), così simile a quello ambrosiano, non elabora un programma figurativo rivoluzionario e, anzi, affida le sue imprese di monumentalizzazione a pochi gesti strutturali e ai solenni epigrammi dedicati ai martiri sepolti nel suburbio romano. Non un segno dell'evocazione figurata di questi campioni della fede:  tutto confluisce all'interno di quelle lastre confezionate da Furio Dionisio Filocalo. Tutta l'attenzione dei fedeli si arresta dinnanzi a quei versi recitati, quasi intonati, da qualche presbitero addetto alla visita guidata dei santuari, dove le flebili lame di luce lanciate dai lucernari e dai lumi a olio colpiscono ora la tomba, ora l'epigrafe d'apparato, ora le fessure delle transenne. E Damaso, che è l'architetto di questi organismi sobri, inventati per immaginare il santo, piuttosto che per riconoscerne il volto, sta un passo indietro, insieme a una committenza privata che lo aiuta economicamente per assicurarsi una postazione ravvicinata del proprio sepolcro, rispetto alla tomba del martire.
Il pontificato di Damaso, l'episcopato di Ambrogio, quello di Paolino di Nola, quello di Severo di Napoli inaugurano, proprio sul crinale tra il IV e il V secolo, una stagione frenetica, dove le idee si intrecciano con quelle di Sulpicio Severo, di Agostino, di Girolamo, di Rufino e quando spuntano i cantieri più complessi, frutto di un pensiero comune o in continuo confronto. Dapprima sembra prevalere e proseguire quel "vuoto figurativo", che aveva caratterizzato i primi secoli, ma poi avvertiamo i primi segnali di una "rappresentazione episcopale" esplicita nella celebre lettera che Paolino fece giungere - per il tramite di Vittore - all'amato Sulpicio Severo, affinché confrontasse le idee architettoniche, iconografiche ed epigrafiche, che si stavano definendo nel cantiere, sempre aperto, di Cimitile e nell'altro, appena avviato, di Fondi, con quelle che avevano ispirato la costruzione del complesso di Primuliacum. È qui, che si apre un singolare problema iconografico, quando si affronta la questione relativa alla decorazione del nuovo battistero di Primuliacum, per la quale Sulpicio aveva richiesto il ritratto di Paolino, da riprodurre a fianco di quello di Martino. L'audace accostamento, seppure deplorato dal vescovo di Nola, non doveva impressionare chi, di lì a poco, avrebbe potuto ammirare il ritratto di Ambrogio, insieme a quello di Materno, tra le effigi dei martiri milanesi di San Vittore in Ciel d'Oro. Sono questi i tempi, d'altra parte, della nuova stagione ritrattistica in Occidente, che tocca le punte più alte con le celebri effigi della cripta napoletana dei vescovi, prime fra tutte quelle di Giovanni I e Quodvultdeus, già nel V secolo.
La figura del vescovo entra prepotentemente negli apparati decorativi delle cappelle episcopali, dei martyria, delle basiliche, proponendo tutto lo spettro della sancta imago di ascendenza filosofica, nella versione della figura stante, del mezzo busto e dell'apoteotica imago clipeata. Ed è questo ultimo espediente - il più fortunato e il più collaudato tra le effigi d'epoca - a travalicare la tarda antichità per moltiplicarsi all'infinito nelle interminabili serie episcopali e pontificie, prima fra tutte quella leonina di San Paolo fuori le Mura. Qui l'autorappresentazione diviene storia e l'effige del vescovo rappresenta l'ultimo anello di una catena che, da un lato, vuole autenticare l'intervento decorativo pontificio e, dall'altro, vuole raccontare la successione naturale delle figure, che hanno fatto brillare la chiesa di Roma. E mentre le teorie dei clipei episcopali sfilano nelle navate delle basiliche napoletane e romane, i vescovi siglano dei veri e completi programmi decorativi, passando, con disinvoltura, dall'autorappresentazione alla committenza architettonica dei più prestigiosi edifici di culto. In questo senso, è ancora Paolino di Nola a stupirci, quando racconta il festoso ritorno a Cimitile di Niceta di Remesiana, nel 403, tre anni dopo il suo primo soggiorno nel santuario di San Felice, come per diffondere la fama delle nuove costruzioni del complesso oltre i confini dell'Occidente (Carmina, 27). Il respiro internazionale del pellegrinaggio feliciano è curato da Paolino nei minimi particolari, sino a descrivere i dettagli del programma absidale della basilica nova, ma anche quello della perduta cattedrale di Fondi, secondo lo stesso spirito che animò il pensiero del presule partenopeo Severo, che, con tutta probabilità, dovette apprestare il programma musivo di San Giovanni in Fonte e quello absidale della basilica severiana.
E quanto succede nelle nobili diocesi napoletane doveva capitare, con maggiore ragione di causa, nell'Urbe, proprio nei primi anni del V secolo, poco prima o durante lo shock del 410. Dalle ombre lunghe di quel disastro emerge il mosaico inquietante della basilica innocenziana di Santa Pudenziana, dove un'ondata apocalittica sembra infrangersi sulla città del giudizio, presieduta da un Cristo severo, che ha tra le mani un codice, che suggerisce l'antichità, la dignità, la valenza del titulus Pudentis, dichiarando il Cristo rex, imperator e iudex come Dominus conservator ecclesiae Pudentianae, come per proiettare la Roma di Innocenzo I (401-417) verso quella comunità ancora frazionata in tituli decentrati, che facevano capo a piccoli gruppi di fedeli, ancora nei primi due secoli dell'era cristiana.
E se la basilica del vicus Patricius ci parla di un'operazione retrospettiva, che si scontra con l'intimidente avvento della lingua apocalittica, di lì a un ventennio, all'indomani del concilio di Efeso del 431, pure traumatico dal punto di vista dogmatico, un altro vescovo costruttore e decoratore, Sisto III (432-440), ancora sull'Esquilino, innalza il "monumento boa" per l'arte paleocristiana d'Occidente, che chiude il capitolo della tarda antichità e apre le porte all'argomento oramai collaudato dell'Apocalisse, ma anche a quello, nuovo e bizzarro, degli scritti apocrifi. La novità del progetto decorativo non sta tanto nella definizione di questi due nuovi filoni tematici, né in quella assodata concordia testamentaria, che unisce la fitta sequenza veterotestamentaria delle navate all'inaspettata novella dell'infantia Salvatoris, proiettata sull'arco, ora trionfale, di Santa Maria Maggiore.
L'imbarazzo si addensa proprio nello zenit di questo arco che, intanto, accoglie il cumulo apocalittico attorno all'inedita figura dell'etimasìa, proiettata come con un disco di luce nel luogo più attraente del manifesto musivo di Efeso e che, poi, in caratteri maggiorati, dispiega quella sintetica iscrizione d'apparato:  Xystus episcopus plebi Dei, che rimbomba come un tuono e che funge da vero glutine di tutto quel formicolare di scene, figure, simboli, allusioni e cifre dogmatiche. Quella esplicita "autentica pontificia" ci accompagna a ritroso nel tempo, verso le più autentiche radici della comunità cristiana di Roma, dove emerge il confronto duale del populus, inteso come plebs Dei o Christi e l'ordo, il clerus, con il suo cursus, che già, secondo il concilio di Serdica (343-344), conosce diversi interstitia, che per l'honor e la dignitas, conducono l'homo ecclesiasticus al rango di summus sacerdos, il ministro che ha la funzione di vegliare sul popolo di Dio, insegnare e amministrare i sacramenti, ma anche il prescelto della plebs Dei, secondo quanto ricorda Leone Magno:  "Chi dovrà essere proposto a tutti dovrà essere eletto da tutti".
Leone Magno (440-461) dunque, il vescovo più impegnato della tarda antichità nel risollevare una città provata da ben due carestie negli ultimi venticinque anni del IV secolo (376, 384), dal devastante sacco del 410, dalla invasioni di Genserico nel 455, dai fenomeni della mendicità e della xenofobia, a cui egli cerca di provvedere con l'istituzione del soccorso, della carità, della colletta cristiana, ma anche e ancora con l'uso dell'immagine nella predicazione. Nel sermone per l'epifania del 443 (33) l'esegesi della Scrittura corre sul filo delle immagini stesse della pagina biblica, consegnando all'uditorio un vero e proprio programma iconografico, che sembra corrispondere con i quadri dell'arco di Santa Maria Maggiore.
Qui il cerchio si chiude e i temi dell'autorappresentazione e della committenza convivono e derivano dal pensiero dei vescovi romani che, di lì a pochi anni, vestiranno i sacri panni dell'"architetto" degli edifici di culto, sostenendo il modellino delle chiese da loro promosse ed edificate, come trofei della loro potentia:  così Papa Felice IV (526-530) nell'abside dei Santi Cosma e Damiano al Foro romano, monumento-cerniera tra la possente tradizione romana e l'incipiente linguaggio orientale; così, molti anni dopo, Pasquale I (817-824), nel remake dell'abside della basilica di Santa Prassede.

(©L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009)