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il-segreto-di-san-pietro-celestino.jpgDomenico Caiazza, Il segreto di San Pietro Celestino. Delle Origini e formazione di Pietro degli Angeleri Papa Celestino V , Quaderni Campano-Sannitici, VI

Presentato al convegno tenutosi in Raviscanina il 1° luglio 2005, questa nuova opera di Domenico Caiazza, facente parte della collana "Quaderni Campano-Sannitici", ci propone una nuova lettura delle fonti medioevali che narrano della nascita, famiglia, e noviziato del futuro Papa Celestino V. Nel castello di Sant'Angelo di Ravecanina, viene identificato il Castrum Sancti Angeli in Terra di Lavoro rammentato da fonti ufficiali e autorevoli come luogo di nascita di Pietro del Morrone.
Viene esaminata la particolarissima devozione dell'abbazia cistercense di Santa Maria della Ferrara, prossima al luogo di nascita del Santo allo Spirito Santo, ereditata ed amplificata dal Santo.
In un affresco della fine del XIII secolo viene riconosciuta l'effige del Santo, simile in modo impressionante a rappresentazioni realistiche del suo volto contenuto in miniature dell'opus metricum del cardinale Stefaneschi. Viene identificato nell'ordine cistercense quello nel quale il Santo, di nobili origini, studiò e prese i voti.


INDICE

Il segreto di San Pietro Celestino ............................................................... pag. 3

Il segreto delle origini di Pietro degli Angeleri Papa Celestino V.......................pag. 7

Ager Alifanus
fortificazioni preromane e medioevali del castello di Sant'Angelo Vecchio.........pag. 109

Oppidun Sancti Angeli cognomento Rabicanum
Dalla grotta sacra alla fortezza storia ed etimo di un toponimo....................... pag. 183

IL SEGRETO DI SAN PIETRO CELESTINO

L'unico papa che nella millenaria storia della Chiesa abbia rinunziato alle chiavi di Pietro è personaggio famosissimo per la santa vita, nutrita di rinunzie, rigore, ascesi, costellata da miracoli, per l'inaspettata ascesa al Soglio che accese la speranza dell'avvento dell'Ecclesia spiritualis ed ancor di più per l'altrettanto inattesa rinuncia, alla quale seguirono l'avventurosa fuga sui monti d'Abruzzo e poi verso la Grecia, quindi la cattura, gli insulti, la prigionia a Fumone e infine la morte contornata dall'alone del martirio.
Una secolare tradizione di studi, rinverdita negli ultimi decenni dall'opera di A. Frugoni e P. Herde e dai notevoli convegni celestiniani dell'Aquila, la città che tiene viva e venera con le spoglie mortali la memoria del santo, ha indagato sulla sua spiritualità, sulle sue propensioni eremitiche e pauperistiche, sulla rivoluzionaria intuizione della Perdonanza, sulla sua attività di fondatore di un nuovo ramo dell'Ordine Benedettino.
Tuttavia da oltre sette secoli dura inviolato il mistero sulle sue origini: sono dubbi l'anno di nascita ed il luogo della stessa, per la quale si sono formulate innumerevoli ipotesi, si ignora dove studiò e quale fu la sua formazione religiosa e culturale. Proprio la sua "indeterminatezza", secondo Clara Gennaro, spinse a studiarlo il Frugoni, che ne delineò in modo magistrale vita ed opera e tuttavia non trovò le chiavi per penetrare il mistero delle sue origini.
Mistero, crediamo, in buona parte intenzionalmente alimentato da Pietro che fu sempre volutamente vago sulle sue radici, salvo che per la memoria affettuosa della madre che favorì la sua vocazione, ma dalla quale presto dovette staccarsi per iniziare studi e vita monastica.
Probabilmente tacque, o sminuì, le sue reali condizioni sociali per umiltà, per lo stesso motivo, ed anche per evitare le polemiche laceranti che normalmente seguivano l'abbandono di un abito monacale, tacque, imponendo forse anche il silenzio a coloro che sapevano, sul fatto che aveva studiato e pronunciato i voti in un ordine possidente, poi lasciato prima per desiderio della pace dell'eremo e poi per dare vita ad una nuova riforma della Regola Benedettina.
Fu infatti certo monaco benedettino, come afferma espressamente in una sua Bolla e tale lo dicono alcune fonti, ma su dove avesse compiuto il noviziato e preso l'abito già in antico si brancolava nel buio. Valga per tutte la testimonianza del suo biografo Lelio Marini, che fu Abate Generale della Congregazione Celestina, e quindi in grado di fare ricerche accurate, e che ciononostante nel 1630 doveva scrivere che "in tutto il corso della vita di lui non è cosa più oscura, che il tempo o l'anno nel quale egli entrasse nell'ordine di S. Benedetto, e dove, e quando vi facesse la professione". Chi conosce la questione delle origini di Pietro di Angelerio o meglio di Angelerio de Angeleriis sa bene che le ipotesi affastellatesi nel tempo, tanto numerose quanto indimostrate e talora palesemente falsate, hanno dato vita ad un inestricabile ginepraio tale da superare persine i topici misteri del Medioevo, sia le reali incognite storiografiche sia i problemi divenuti mitici e fantastici, come quello del Santo Graal o della sorte dei Templari.
Fu così che, praticamente senza speranze, cominciai ad esaminare la questione nell'ambito della ricerca sulla spiritualità tardo antica e medievale dell'Alta Terra di Lavoro per la quale hanno già visto la luce gli studi su La grotta di S. Michele Arcangelo in Monte Melanico, riti preistorici e culto michaelico in Terra di Lavoro e le Storie di Santi draghi e guerrieri, mentre attendono la stampa le ricerche su La Terra di S. Maria in Cingla, le schede preparate per il Monasticon e l'edizione commentata dell'inventario dei beni dell'abbazia cistercense di Santa Maria della Ferrara dell'anno 1584. Man mano che mi inoltravo nel garbuglio di opinioni alla sfiducia si aggiunse il fastidio, ma era doveroso indagare visto che alcune fonti lo dicevano nato in Terra di Lavoro, quella che da tanti anni investigo.
Infine stavo per abbandonare la ricerca e tuttavia, come accade spesso per i rompicapo, non trovavo la soluzione ma neppure la determinazione di smettere di cercarla, e così ripartendo dalle fonti dopo alcuni anni di paziente studio sono pervenuto a risultati neppure ipotizzati quando mi prefissai di identificare semplicemente il Castrum S. Angeli di Terra di Lavoro indicato chiaramente quale paese natale del santo da alcune fonti, importanti e di prima mano, ma stranamente da nessuno utilizzate.
Credo sia ora definitivamente dimostrato che il santo non nacque nelle terre molisane che lo rivendicano, né in Abruzzo né in Puglia, ma in Terra di Lavoro, nel Castrum Sancti Angeli cognomento Rabicanum o di Ravecanina, presso Alife.
E, cosa ancora più notevole della mera individuazione della terra natale, credo sia ragionevolmente dimostrato che studiò nella vicina abbazia cistercense di Santa Maria della Ferrara, sita su un colle presso la riva del Volturno, non lungi da Vairano, e che qui fece la professione religiosa, vestì l'abito bianco dei Cistercensi, ed apprese la devozione allo Spirito Santo, che fu peculiare e predominante solo in questa abbazia, e nell'universo monastico medievale condivisa solo da Gioacchino da Fiore e da Placido da Roio, entrambi ex cistercensi e fondatori di monasteri con regola più rigorosa di quella originaria, vicini al sentire di Pietro Celestino che certo si ispirò all'Abate Calabrese.
Se non erriamo, dalla Ferrara, cenobio che possedeva eremi, che non furono sufficienti alla sete di colloquio solitario con Dio di alcuni suoi figli, e dalla quale sciamarono verso i monti dell'interno eremiti di santa vita, Pietro potè ricevere il seme della sua vocazione eremitica. E dalla Ferrara, ad un tempo suo monastero e sua patria d'origine per la vicinanza col Castrum S. Angeli, egli, giovane certosino, partì, non senza dubbi e timori, per recarsi in Abruzzo a compiere il suo primo esperimento di eremitismo.
Consolidata nella pratica la sua vocazione alla solitaria lotta col Tentatore, Pietro si recò poi a Roma e quindi ne tornò sulle vette d'Abruzzo confermato nel suo intento di cercare la perfezione religiosa nel silenzio e nel sacrificio. Così percorse a ritroso il cammino di San Benedetto e da cenobita si fece eremita, e tuttavia non dismise l'abito monastico e solo irrigidì la regola con la solitudine, penitenze, digiuno e freddo. Ma, come San Benedetto, fu raggiunto da compagni desiderosi di seguire il suo esempio e divenne fondatore di monasteri ai quali diede una nuova regola così innestando un nuovo ramo sulla vigorosa pianta benedettina.
Come i digiuni, strenui ma attentamente calibrati, non vinsero la sua tempra, visto che sessantenne raggiunse Lione a piedi, così la solitudine non corrose la sua mente e quanto aveva studiato in gioventù. Infatti non dimenticò il latino né le norme canoniche e civilistiche, né dismise la scrittura o lo studio, e come utilizzò i rimedi ed i medicamenti dei Cistercensi in favore degli ammalati, così grazie alla loro sapienza edilizia, economica e giuridica potè costruire, riparare, sostenere economicamente i monasteri e rivendicarne i diritti contro le soperchierie di prepotenti feudatari.
Nel 1291, già assai avanti negli anni, tornò probabilmente alla Ferrara per partecipare al funerale di Malgerio Sorel junior che fu valletto e falconiere dell'imperatore Federico II, che due volte aveva sostato alla Ferrara. Perciò l'effige di Pietro, con quella dei Celestini che lo accompagnavano, fu fissata nell'affresco che eterna il funerale di Malgerio, il miles e magnate che dimise le pompe del secolo e si fece cistercense. Infatti attorno al catafalco del conte-monaco si vedono, oltre ai cistercensi biancovestiti, sbarbati e con la tonsura, che vegliano reggendo in mano rosse candele, sei monaci che per veste bianca e cocolla nera sembrano essere Celestini. Disposti ai due estremi della teoria dei monaci biancovestiti assistono alla cerimonia privi di candele e si distinguono dai Cistercensi anche perché hanno la barba. L'ultimo di questi monaci sulla sinistra è un vecchio patriarca magro e un po' curvo, con capelli a caschetto inondati di canizie al centro, con lunga barba incolta e bipartita, poiché più rada al centro, che somiglia, in modo direi impressionante, alla raffigurazione di Celestino nel codice dell'Opus Metricum, ispirata e verificata dal cardinale Stefaneschi che vide e conobbe il Papa Angelico.
E' facile osservare che mentre il sovrastante affresco della Madonna tra i santi Pietro e Paolo, fatto dipingere in vita da Malgerio, ha la fissità e le forme stereotipe dei volti della pittura bizantina la scena del funerale di Malgerio è di una diversa mano che si sforzò di rappresentare fisionomie reali: basti notare che a fianco del patriarca nerovestito è un monaco giovane, vigoroso, con barba nera, che mostrano anche i suoi compagni. Dunque anche i visi, i capelli, la barba e l'espressione, oltre che le vesti, distinguono questi monaci da quelli della Ferrara, certo più stereotipi. È perciò probabile che, subito dopo la deposizione di Malgerio, un pittore, diverso da quello dell'arcosolio, forse un monaco della Ferrara o un artista appositamente chiamato, abbia fissato la scena delle esequie ed i volti degli ospiti. Se ciò rispondesse al vero sarebbe questo un ritratto, databile con esattezza e realistico del santo, confermato dalle descrizioni delle fonti e dal ritratto ispirato dallo Stefaneschi, mentre è invece certo che sono idealizzate ed esemplate sulla iconografia di S. Francesco, le iconografie, come ad esempio l'affresco da Casaluce, che rappresentano Pietro sbarbato, giovane e con la tonsura addirittura nelle vesti di papa, che lo paludarono ottuagenario.
Nel sottoporre queste riflessioni e suggestioni al mondo scientifico auspichiamo nuove e più compiute indagini, ed esprimiamo anche la speranza che questo studio, oltre a gettare un po' di luce su quello che per sette secoli è stato uno dei più fitti misteri del Medioevo, contribuisca a salvare dalla imminente rovina l'edicola di Malgerio ed i suoi affreschi, ed i resti della badia sopravvissuti a sette secoli e oggi minacciati dall'edera e dall'oblio di chi dovrebbe tramandare una secolare vicenda di fede e cultura.
Domenico Caiazza