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Signum - Quaderni di Storia ed Archeologia    Settembre 2005     -     Anno II, Numero 2(5)




Il rapporto di Francesco Petrarca con il territorio: Roma e il ‘Districtus', Atti della giornata di studio, Ferentino, 8 dicembre 2003, a c. di Ludovico Gatto, Ferentino-Roma, Centro di Studi Giuseppe Ermini, 2004, pp. 336.




Il settimo centenario di Francesco Petrarca è stato ricordato dal Centro Giuseppe Ermini di Ferentino tramite una giornata di studio il cui frutto è un intero volume dedicato ad approfondire il rapporto che lega la produzione letteraria e alcuni aspetti della vita dell'Aretino con la realtà territoriale di Roma intesa nella sua valenza storica, geografica e culturale. Il risultato di una simile indagine, costretta - diremmo - dalla specificità del proprio campo d'interesse ad aderire al significato concreto dei testi analizzati, consegna al lettore la figura di un uomo "profondamente inserito nell'età di mezzo, i cui problemi e aspirazioni, le cui ansie e speranze - come affermato nello scritto introduttivo (Il senso del convegno, p. 11-24) da Ludovico Gatto - in buona parte lo riguardarono".

Il volume si apre con il saggio Petrarca nella Roma medievale (p. 25-100) in cui Ludovico Gatto, nella prima sezione, si sofferma ad analizzare la sensibilità petrarchesca in relazione al concetto di periodizzamento storico: a tanta parte della critica che ha voluto rilevare il più o meno netto e cosciente distacco intellettuale e culturale dell'Aretino da un'età cui secondo la moderna cronologia appartiene, l'A. oppone puntualmente la testimonianza di alcuni fra quei testi paradossalmente "assunti come prova provata del sentimento nuovo del Petrarca". L'analisi di brani tratti dalla Fam. VI, 2, dalla Posteritati e dal sonetto L'avara Babilonia (RVF, 137) permette a Gatto di individuare l'impronta di una "sistemazione temporale" che risponde a una sensibilità "di segno differente" rispetto alla posticcia coscienza di una opposizione fra un'età di mezzo e un'età nuova, sistemazione dove il cardine tra il prima e il dopo, tra il passato e il presente è dato dall'unico evento veramente nuovo: la nascita di Cristo. Historia antiqua e historia nova: dunque "un periodizzamento che si avvale di contesti collaudati e non insoliti", come tradizionale risulta, nella lettera a Giovanni Colonna (Fam, VI, 2), la rassegna dei mirabilia Urbis "vista per solito dai critici in prevalente funzione romano-classica e archeologico-antiquariale", ma in realtà strumento per la maggior gloria della Roma cristiana [...] secondo un'abitudine consolidata nei secoli immediatamente precedenti il ‘300" tanto più se si pensa che i personaggi storici o mitici legati alla Roma classica vengono da Petrarca evocati per il tramite di fonti squisitamente medievali (Iacopo da Varagine ed Eusebio di Cesarea). La seconda sezione del saggio si rivolge più specificamente "ai vari soggiorni e ai ripetuti ritorni del poeta aretino nell'Urbe" seguendone gli itinerari, non meno geografici che emotivi e letterari, attraverso l'arco delle testimonianze epistolari. Queste non fanno che riaffermare le precedenti conclusioni evidenziando come convivano, inscindibili, accanto alle descrizioni stupite della Roma pagana, quelle altrettanto ammirate per la Roma cristiana, quasi la prima "avesse avuto il compito di preparare l'avvento del Cristo nonché la fondazione della sua religione e della sua Chiesa". La stessa alta onorificenza ottenuta nel 1341 sul Campidoglio si conclude con un gesto, la deposizione della corona d'alloro sull'altare della Basilica di S. Pietro, che si risolve in "un altro aperto richiamo all'età di mezzo e ai suoi valori". In conclusione - come dimostrarono l'episodio di Cola di Rienzo e il Giubileo del 1350 - il richiamo dell'Aretino verso il centro "che egli considerò sempre la sede naturale e provvidenziale del papa e dell'imperatore", nonché la partecipazione commossa e il ricordo delle vestigia antiche illuminate dal trionfo della Roma dei martiri, non nacquero da un rapporto di natura libresca e non da una "deformazione classico-culturale" di spiccata vena umanistica, bensì il desiderio di "riportare l'Urbe ad pristinam magnificentiam" e la deprecazione per la decadenza di opere d'arte e monumenti derivarono dalla consapevolezza di avere a che fare con un "organismo vivo", reale, presente, con cui si misurò l'utopistico programma politico dell'Aretino riconfermando in tal modo una precisa sensibilità ideologica e storico-culturale per il significato tutto medievale della "sua" Roma.

Il saggio di Riccardo Capasso, Epigrafi di Francesco Petrarca (p. 101-123), corredato in fine di alcune tavole, prende in considerazione una forma d'arte non troppo familiare alla penna dell'Aretino. Attraverso l'individuazione e l'analisi dell'impianto stilistico, nonché della grafia di alcuni epitafi, massime od epigrammi - spesso di carattere obituario - palesi, "ascosi o sottintesi nei molti scritti" del poeta, l'A., manifestando con ciò l'auspicio di poter intraprendere uno studio maggiormente esaustivo sull'argomento, prova a sciogliere la questione preliminare relativa alla definizione della personalità storica e letteraria del grande aretino "che in tutti i campi nei quali operò, manifestò sempre una collocazione culturale oscillante tra il mondo antico e quello a lui contemporaneo", collocazione che non si esita a definire "tipica del sentire medievale".

All'individuazione di "un criterio tipologico e metodologico" volto a definire una nuova chiave esegetica quale strumento per una più approfondita comprensione di RVF 53, e in generale "della poesia petrarchesca di ambito politico e civile", è dedicato l'esaustivo contributo di Gianluca Pilara  Alcune osservazioni sulla canzone "Spirto gentil" di Francesco Petrarca (p. 125-150). Obiettivo primario della ricerca non è dunque il riconoscimento dello specifico personaggio che si cela sotto il velame dei versi petrarcheschi, bensì la comprensione dello scopo che ha condotto l'Aretino a precise definizioni individuanti nel componimento lo spirto gentil, infine i motivi per cui determinate personalità del suo tempo possano concorrere a rappresentarlo, motivi che Pilara cerca di affiorare con l'aiuto di alcune corrispondenze concettuali e terminologiche che corrono tra RVF 53 e l'intera poesia del Canzoniere, l'imprescindibile contesto in cui la canzone è immersa. Dunque non viene indicata una soluzione ma suggerito un percorso che, attraverso l'analisi intertestuale di alcune parole chiave (espressioni quali "spirto gentil", "gentil", "valoroso, accorto et saggio", "signor", "cavalier pensoso") e dei relativi riferimenti a specifici ambiti semantici, risulta incisivo ed efficace strumento per l'approfondimento più schiettamente storico svolto dall'A. nei paragrafi successivi e alla cui luce vengono esaminati i rapporti che il poeta strinse con alcuni membri della famiglia Colonna nonché, tramite la lettura dell'epistola Hortatoria e dall'Egloga V, con Cola di Rienzo.

Cospicuo è l'impegno civile dell'Aretino e ricca la corrispondenza con i personaggi politici e religiosi del suo tempo: parte rilevante del suo epistolario comprende infatti "le relazioni e i contatti che quest'uomo intratteneva con le autorità" fra le quali la figura del pontefice nella persona di Urbano V occupa un posto di spicco. Il rapporto tra Guillaume de Grimoard e il cantore di Laura, sullo sfondo dell'idea di Roma quale legittima sede del vicario di Cristo, è quindi il tema dell'approfondito studio offerto da Gianluca Pilara nel suo secondo lavoro Roma nell'"incontro" tra Francesco Petrarca e Urbano V (p. 151-181). Attraverso la lente dello scambio epistolare il punto di vista petrarchesco viene proiettato sull'intera storia europea rivelando l'intimo legame che per il poeta vincolava la questione romana alle vicende della cristianità e in particolare agli eventi che toccarono il pontificato di Urbano V. Se preponderante è nelle lettere del poeta il desiderio di restaurazione dell'Urbe a sede delle due somme autorità, l'analisi dell'A. - stringendosi così alle conclusioni raggiunte nel precedente contributo di Gatto di cui appare ideale continuazione -, lungi dal considerare l'accesa polemica antiavignonese dell'Aretino secondo una luce spiccatamente letteraria e antiquariale, sottolinea il non retorico sentimento di partecipazione che le epistole restituiscono per l'avvilimento sociale, politico e culturale non soltanto della città di Pietro, ma dell'Italia tutta. Tra le potenti figure di Urbano V e dell'imperatore Carlo IV di Boemia si delineano gli eventi occorsi nella penisola tracciati dalla paziente opera pacificatrice dell'Albornoz, gli incontri del pontefice con l'imperatore di Bisanzio e Pietro re di Cipro, il rapporto con Giovanna di Napoli, quindi la lotta tra la Chiesa e Bernabò Visconti. Su tutto è il sentimento del Petrarca che traspare lungo l'intero arco della corrispondenza con il vescovo di Roma, dalla Sen. VII, esortativa e piena di speranza, all'ultima epistola, la Var. III, non mai giunta a destinazione, dominata da un senso di profondo sconforto e venata di ineluttabilità scritta in occasione della notizia della definitiva partenza di Urbano da Roma. Privilegiando un approccio che si spinge oltre i confini dettati dagli schemi letterari, Pilara ci consegna, attraverso un minuzioso affresco storico-sociale, quella concreta realtà troppe volte licenziata dalle epistole petrarchesche contribuendo con ciò ad una visione per molti aspetti più varia e completa del grande poeta.

Nel successivo contributo La retorica della memoria: il Districtus Urbis nelle epistole petrarchesche (p. 183-191), Paolo Piccari si propone il recupero di un aspetto piuttosto trascurato nell'insieme dei facta esistenziali e letterari dell'Aretino: così come testimoniati da alcune lettere che ne descrivono luoghi e situazioni, il soggiorno o il semplice transito in territorio romano vengono dall'A. ritratti all'interno di un contesto storico che non rifugge il minor rilievo delle vicende locali e spazia dagli antefatti dei viaggi petrarcheschi sino agli itinerari dal poeta seguiti e ai suoi soggiorni, l'analisi dei quali non manca di cogliere, nel diaframma delle epistole, inedite sfumature letterarie.

L'intervento di Nicoletta Bernacchio, Roma e il suo territorio nelle descrizioni di Petrarca (p. 193-232), risponde all'interrogativo se gli scritti dell'Aretino possano o meno essere considerati una fonte per la topografia della Roma del XIV secolo. L'indagine della studiosa, che lamenta la mancanza di "una ricognizione completa che censisca tutti i loca in cui il poeta abbia parlato di Roma", individua nel corpus delle Familiari precisi "atteggiamenti mentali" assunti da Petrarca di fronte alla "registrazione dei dati". Preponderante appare l'idealizzazione della città in cui pulsa la memoria dell'antico, nonché del centro della cristianità, luogo in cui si consumarono le azioni dei martiri e in cui sono conservate le più preziose reliquie (Fam. II, 9; II, 14; Epyst. I, 2; I,5; II, 5; Sen. VII). Interessante in questo senso è il sapore squisitamente politico assunto da certe idealizzazioni ipostatizzato da Petrarca  in precise allegorie che l'A. individua nelle figure della sposa abbandonata e della matrona (Fam. XII, 1; X,1). Questa prima categoria si distingue per la totale latitanza di riferimenti diretti a luoghi e monumenti della città reale presenti invece in un secondo gruppo di lettere in cui, nascoste tra la pedante erudizione del poeta, risorgono immagini e situazioni particolari quali la salita sulle rovine delle Terme di Diocleziano (Fam. VI, 2) o la visione dell'Acheropita del Laterano (Fam. IX, 13). Come  fragmenta gettati "quasi a caso" si scoprono invece i riferimenti più ricchi e originali laddove Petrarca smette "le vesti dell'erudito di storia antica [...] e ricorda semplicemente luoghi e fatti": un esempio suggestivo è un brano della Fam. VIII, 1 in cui l'Aretino individua esattamente il quadrivio in cui con Stefano Colonna il vecchio aveva un giorno colloquiato, o ancora nella Fam. XI, 7 i riferimenti alla Turris Comitis e alla basilica di S. Paolo. Immagini, queste, che permettono di rispondere affermativamente alla questione preliminare posta dall'A., sebbene "la scarsità di notizie riferibili alla città vivente e reale" possa far risultare le numerose pagine dedicate dal poeta a Roma "una grande occasione mancata" per la topografia e la storia materiale della città.

Comitesque latentes: acquisti librari romani di Francesco Petrarca (p. 233-249) è il saggio di Maddalena Signorini in cui, dopo una panoramica sullo stato culturale a Roma nel secolo XIV, si punta l'attenzione sui tre codici che il poeta acquistò durante la prima visita nell'Urbe nel 1337: un manoscritto contenente le Enarrationes in Psalmos di Agostino e due miscellanee di carattere ecclesiastico (rispettivamente Par. lat. 1994; 1617; 2540) appartenute, queste ultime - di provenienza avignonese e databili al primo quarto del XIV secolo -, a Landolfo Colonna cui l'Aretino era legato da un intenso rapporto intellettuale. La genesi del codice Par. lat. 1994, più antico dei precedenti (sec. XI-XII), è invece maggiormente problematica: attraverso una veloce indagine paleografica l'A. ipotizza un'origine romana del manoscritto proveniente, come testimonia la nota di possesso, dal monastero di S. Gregorio al Celio, dal quale - continua la studiosa - è probabile provenissero molte opere necessarie alla stessa vita liturgica del Laterano. Se così fosse le Enarrationes acquistate dal poeta rappresenterebbero una preziosa testimonianza che andrebbe ad arricchire la scarsissima eredità libraria del monastero. Ma l'importanza di tali acquisti non si ferma alla sola materialità dei codici: l'analisi condotta dall'A. diviene funzione per una più approfondita conoscenza sia della modalità con cui "i tre  manoscritti parigini si inseriscono all'interno della biblioteca" di Petrarca, sia del suo percorso intellettuale e critico-letterario dove gli aspetti grafici e codicologici "costituirono la forma indispensabile attraverso la quale il testo trovava la sua corretta presentazione e modalità di fruizione". Le caratteristiche materiali dei codici acquistati a Roma "rappresentano un tassello importante di queste riflessioni [...] aprendo così la porta sia agli studi filologici sia alla trasformazione grafico-libraria umanistica".

I successivi due contributi dilatano il tema del convegno verso argomenti comunque legati alla specificità territoriale ma altri rispetto alla realtà romana. Nel suo saggio Osservazioni sull'Itinerarium ad sepulchrum Domini nostri Yehsu Christi di Francesco Petrarca (p. 251-270), dopo aver ricostruito a grandi linee la biografia dell'Aretino negli anni del soggiorno milanese (1353-1361), Alfredo Cocci passa ad esaminare forma e contenuti del testo petrarchesco, dal genere di appartenenza - l'epistolografia - , ai diversi piani di lettura (religioso, descrittivo, esemplare), sino all'impronta narrativa e lirica delle descrizioni geografiche. Particolare attenzione è dedicata alle fonti sia classiche, sia biblico-patristiche e ai debiti nei confronti di altre opere petrarchesche quali l'Africa, le Fam. V,3; V,4 e le Epyst. II,7; II,16. L'A. individua nell'evidente sproporzione cui soggiace la descrizione del poeta a tutto vantaggio del ritratto geografico italiano - in particolare della costa tirrenica, che occupa più della metà dell'intera opera - "una guida a quell'Italia vagheggiata [...] che prima di Petrarca era vistosamente de-territorializzata" mentre qui l'Aretino "perviene al superamento degli orizzonti municipali" attraverso una "scrittura cartografica del sé" che trascende, tramite uno "statuto cosmpolita", la coeva situazione politico-geografica per rinsaldarsi in un organismo concorde, quindi in una communitas di spiriti pensosi e in una geografia intesa come territorio letterario.

Eleonora Plebani con il saggio Francesco Petrarca e la Toscana. Luoghi, sentimenti, incontri (p. 271-291), esamina il rapporto che legò l'Aretino alle città di Firenze, Arezzo e Pisa, un legame "sostanziato di memorie indirette" che fanno capo alla sua infanzia, a volte più letterarie che vissute. Per comprendere il vincolo conflittuale che obbligò il poeta alla dominante toscana, l'A. compie un excursus sulla figura del padre, ser Petraccolo, e sui legami politici che sembrerebbero averlo portato all'esilio nel 1302, situazione di cui il piccolo Francesco subì la forte influenza sino a vivere il rapporto con la città, che nelle proprie lettere viene definita con i termini di "domus" e di "patria", sulla base di una profonda contraddittorietà, rivelata, nonostante la professata nostalgia per Firenze, dalle due visite - soltanto per pochi giorni - nel 1350, quindi dal pretesto addotto per rifiutare una cattedra allo Studium fiorentino e infine dalla quasi definitiva rottura quando il poeta accettò l'ospitalità dei Visconti che minacciavano seriamente la libertà della Toscana. I legami con le città di Arezzo e di Pisa risultano meno profondi e complessi: nei riguardi della prima Petrarca  si sentì sempre un estraneo, mentre la seconda sembrò offrirgli l'incontro, nel suo ottavo anno di esistenza, con Dante Alighieri. In conclusione, afferma l'A., "è possibile interpretare il rapporto dell'Aretino con le città della sua prima infanzia come un vincolo più intellettuale che sentito".

Dopo aver tirato le somme del convegno nella Conclusione (p. 293-303) ribadendo ancora una volta la necessità della storicizzazione dell'uomo Petrarca e della sua opera che eviti "fughe in avanti e mitizzazioni", il concetto di homo viator, ancorato ad un preciso contesto storico-geografico, viene da Ludovico Gatto analizzato in un'appendice dal titolo Francesco Petrarca: una vita a dimensione territoriale (p. 305-336) in cui si ripercorre, con l'ausilio di uno stile "leggero" tale da rendere gradevolissima la lettura, la biografia dell'Aretino ponendo quindi l'accento sul bisogno insopprimibile del poeta "di spostarsi e cercare sempre nuove occasioni di viaggi e di incontri che costituirono un impegno costante, divenuto quasi una ragione di vita".


Federico Bucci